Sono commosso, emozionato e felice al tempo stesso.
Mai avrei immaginato un atto di così grande e profonda umanità come quello esperito dal nostro grande Papa Francesco.
La sua sincera e “cristiana” telefonata a Mamma Filomena, madre di Elisa Claps,madre coraggio della Basilicata, dopo la morte del marito (tanto mite e tanto silenzioso quanto orgoglioso e dignitoso) è stato un capolavoro di umiltà e di grande solidarietà.Una vera telefonata “rivoluzionaria” che ha scosso gli animi e le certezze di tanti uomini e donne (quelli dediti alla protervia, all’ ignavia e al rancore).
Uomini e donne che hanno coltivato cinicamente e da secoli una “distanza siderale” tra la loro “categoria sociale” bonificata da secoli da un doroteismo istituzionale chiuso e settario (modello praticato successivamente da tutto il sistema famelico delle filiere partitocratiche lucane) e il popolo mite, lavoratore e “plebeo” lucano.
In quei cinque minuti si è colto tutto il pathos e la grande onestà e dirittura morale di un uomo immenso.
Un uomo immenso come Papa Francesco privo di superbia rispettoso e dotato di grande spessore umano.
Siamo convinti che questo bellissimo gesto sia paragonabile alla portata della grande manifestazione dei 10.000 ragazzi potentini all’indomani del ritrovamento del corpo di Elisa.
Questa stupenda telefonata ha integrato e supportato un nostro comune sentire orientato al bisogno di giustizia e alla gioia di scoprire nuovi fermenti giovanili, anche da noi, in Basilicata.
Sono queste le vere ragioni che ci hanno “imposto” sin dalla prima ora di solidarizzare con la famiglia Claps e di non nasconderci dietro comodi e pavidi paraventi “borghesi”.
Ritenevamo e Riteniamo, ancora, oggi, che sia il modo per non consentirci vie di fuga.
Per riprendere uno scritto dell’amico Gigliotti: “Quante volte ci accorgiamo della nostra indignazione a singhiozzi, che denota più passione che senso profondo di giustizia”. Quante volte ci accorgiamo del nostro non essere compassionevoli, compagni di strada. Quante volte ci accorgiamo di non aver più tempo, schiacciati da bisogni indotti. Ma non ci rassegnamo a rimanere inerme o a ritagliarci un comodo ruolo da intellettuale (o sedicente tale)”.
Il giorno del ritrovamento di Elisa ero ahimè lontano dalla Basilicata, ero fuori sede per impegni di lavoro (anche questo è un prezzo della nostra libertà) e quella verità, lontana da Potenza, mi è sembrata ancora più dura da accettare.
Ho vissuto quel momento, come la maggior parte dei lucani e dei potentini di buona volontà, con un senso di profondissimo disorientamento.
Quello stato d’animo l’abbiamo espresso con tanti uomini e donne (con schiena dritta) e con tanti editoriali molto duri, di emozioni e di proponimenti.
Concludevo dicendo a me stesso condividendo l’amico Rosario Gigliotti: mai più sguardi bassi, mai più abbracci non dovuti, mai più abbracci senza un perché. Troppi abbracci, troppi sorrisi, troppi ammiccamenti inusuali per una vicenda, tanto tragica.
Anche questi ammiccamenti e queste subdole e ambigue giustificazioni non le accettavo più.
Era il mio prendere le distanze da quel calore avvolgente del sud e di Potenza, in particolare, bello ma a volte ricattatorio, quel subdolo consegnarsi al valore supremo dell’amicizia, anche se amicizia non è, ma potere mascherato.
Caro direttore tutte queste scelte quelle ci costano fatica devono essere propedeutiche a un nuovo mudus operandi e vivendi.
Non è facile prendere le distanze, politiche e umane, da certi personaggi che tu credevi amici solidali.
Non è facile affermare pubblicamente che noi siamo stati da una parte sola con la famiglia Claps, senza se e senza ma.
Non è stato facile prendere le distanze da certi cosiddetti amici giornalisti e rotariani.
Non è stato facile sentirsene dire di tutti i colori quando giudicammo ambiguo il comportamento della Curia.
Non è stato facile rinunciare ai privilegi e alle carriere facili, alle prebende e agli incarichi urlando tutto il nostro disappunto nei confronti del comportamento tribale e familistico della classe dirigente lucana.
Parlo, come vedi, caro direttore, non del coraggio della denuncia, ma della difficoltà di sottrarsi alla rete sottile delle conoscenze e delle “relazioni corte”, della necessità di non separare il dovere dalla cittadinanza responsabile, per non cadere in un comodo girarsi dall’altra parte.
Un girarsi dall’altra parte che ha caratterizzato la cosiddetta intellighenzia lucana.
Una intellighenzia che arranca e che non produce più nè cambiamenti e nè seria innovazione (quella vera).
Chiedere verità e giustizia non è avere la certezza di essere migliore, ma è assecondare il valore sacro dell’indignazione, quel fuoco che ci accomuna, non in quanto esseri speciali, ma in quanto uomini.
Dopo questa francescana e umile iniziativa papale ci sentiamo , noi uomini di buona volontà, più rasserenati e più convinti.
Rasserenati e convinti di aver scelto la strada giusta e di non rinunciare ai nostri “obiettivi copernicani” e al nostro essere uomini con schiena dritta qualunque cosa pensino gli altri.
E, al contrario, ci interessa solo il parere degli amici veri , di chi ci conosce, di chi ci critica ferocemente per tutte le nostre assenze, fisiche e mentali, nei confronti delle persone a noi più vicine, rivelando impietosamente tutte le nostre “ipocrisie”.
Mauro Armando Tita