Gli scricchiolii del PNRR

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Il puntuale e preciso “ Rapporto” della Fondazione Tarantelli-Economia Reale presentato dal Prof. Mario Baldassarre ci ha descritto chiaramente nei giorni scorsi l’incapacità dell’economia italiana a crescere rispetto agli altri Paesi UE .

Un’economia ferma negli ultimi vent’anni con una spesa corrente spropositata e con un aumento terrificante del debito pubblico, acuito oggi dalla pandemia.

Una economia con qualche “oasi” senza particolari investimenti produttivi e con bassa crescita del mercato interno dovuta alla stagnazione patogena dei salari. Lo stesso dicasi della nostra Basilicata.

Il PNRR non ha tenuto conto della fuga inarrestabile dei giovani intellettuali (che ci ha fatto perdere in vent’anni oltre mille miliardi di risorse aggiuntive e in Basilicata oltre cinque miliardi di euro) e della micro economia con i diversi profili professionali richiesti dalle nostre imprese e mai risolti in questi ultimi dieci anni.

Il PNRR rivolto al SUD lo abbiamo già anticipato prima del suo varo definitivo tanti mesi fa sulla Prima Pagina della Gazzetta, non risolverà alcunché né in termini di investimenti produttivi né in serie politiche attive del lavoro.

Il PNRR sbandierato come strumento di sviluppo e di innovazione come il Piano strategico lucano risulta del tutto carente sia nella pianificazione territoriale (del tutto assente) sia nella condivisione partecipata.

Sembra di rivedere un dejà vu stucchevole il fallimento della politica dei Poli industriali, targati anni settanta, da me ampiamente descritti nel Volume; “Quando la Sinistra amava il Mezzogiorno”.

L’incapacità delle aree di sviluppo meridionali a controbilanciare la forza attrattiva delle aree industriali del Nord e l’operare a “macchie di leopardo”, nonostante la presenza di grandi siti industriali come Stellantis o Centri OLI (ENI e Total)che genera una economia drogata con un falso PIL regionale, sempre ignorato dal Centri Studi della Banca d’Italia ripropongono una sorta di economia informale, tout court.

Non siamo mai usciti dallo spontaneismo senza la bella “pedagogia” economica, posta in essere dalle piccole e medie imprese industriali e artigianali degli anni novanta, come da me dettagliato nel Volume: “Quando l’Artigianato Lucano garantiva PIL e occupazione” evidenziato dai Rapporti ARSA e IBRES degli anni di che trattasi.

IL PNRR non si discosta da quel modello anni settanta paracadutato in Basilicata con i suoi Tabernacoli nel deserto. I grandi insediamenti FIAT/ENI che non hanno mai creato i presupposti di una industrializzazione estensiva , generalizzata e uniforme, hanno accentualo gli squilibri territoriali.

L’aumento dei consumi interni è stato alimentato dall’enorme sperequazione nella distribuzione del reddito tra differenti classi e ceti sociali che ha creato il mercato per i nuovi beni la cui produzione e vendita è particolarmente vantaggiosa dal punto di vista del solo profitto …con tante distorsioni nella scala dei consumi.

Come cinquant’anni fa il PNRR impone la scelta dei settori di investimento e la utilizzazione delle risorse di indirizzo dei gruppi monopolistici.

L’industrializzazione, lo sviluppo agricolo, l’innovazione non appaiono come obiettivi generali del PNRR. Appaiono invece come riflesso dello sviluppo capitalistico/imprenditoriale in atto e l’intervento pubblico soltanto come necessario supporto di esso.

Perciò come cinquant’anni fa il PNRR di oggi non metterà in moto alcun sistema autonomo e autopropulsivo di sviluppo da consentire un progresso socio-economico anche senza l’intervento pubblico.

Come nel 1950 con l’istituzione della Cassa per il Mezzogiorno (L.646)il sogno dell’intervento aggiuntivo resterà una vera chimera. Lo dimostra l’utilizzo delle risorse dei “Fondi di Sviluppo e Coesione” slegati dal contesto generale dei PNRR.

Vorrei ricordare che l’espansione monopolistica riproposta dal PNRR anziché sopprimere la scarsità, la disloca e la riproduce a diversi livelli : la priorità ai beni di consumo opulento ha significato in Italia, oggettivamente, un minor numero di ospedali (oggi addirittura dismessi), di scuole, di crisi degli alloggi; ha significato l’insufficienza delle risorse pubbliche disponibili per la lotta contro l’inquinamento, per creare attrezzature collettive, necessariamente non redditizie; ha significato la necessità di costruire arterie di rapida circolazione , autostrade e alta velocità limitata e riservata solo al NORD. La mitologia dell’industrializzazione monopolistica ha emarginato la parte più valida della nostra stupenda agricoltura strozzata dalla concorrenza dei paesi del bacino mediterraneo e subordinata vergognosamente ai gruppi industriali.

Per questa serie di motivazioni di fondo le soluzioni tecniche paracadutate dall’alto non servono se non sono sostenute da una maturità politica e da una partecipazione attenta delle popolazioni.

Come sociologo di strada e studioso dei movimenti politici delle aree interne del Mezzogiorno mi preme richiamare l’attenzione sui nostri vecchi CPU (Comitati Popolari Unitari) anni settanta.

Volutamente le popolazioni del Mezzogiorno interno rinunciavano alla committenza partitica e tentavano di gestire direttamente la lotta, in una ricomposizione politica di ogni richiesta economica , in una organicità con i bisogni locali , partecipando alla vita reale della politica , della cultura, e sforzandosi di calare queste iniziative in istituti e vertenze globali con tutte le controparti pubbliche e private.

Vi sono le condizioni per riproporre oggi (con la crisi strutturale dei Partiti)un tale modus operandi?

La riflessione a tal riguardo sorge spontanea…

Armando TITA

Sociologo 77

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