Ergastolo, semplice o ostativo? Ma che cos’è, in pratica, l’ergastolo ostativo?

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Già da qualche anno, tiene banco il dibattito sull’abolire o mantenere l’istituto dell’ergastolo vigente, ora ravvivato dalla fine della latitanza del superboss Matteo Messina Denaro. Le correnti di pensiero in seno alla Magistratura e all’Avvocatura, a tale proposito, sono molteplici, differenziate e discordanti, in alcuni casi addirittura antinomiche. Infatti, c’è chi sostiene che l’ergastolo non produca una maggiore deterrenza e conseguente diminuzione del tasso di criminalità, rispetto alle pene temporanee di lunga durata, e chi ritiene, invece, che l’ergastolo giustifichi la sua vigenza in virtù della sua funzione preventiva, ovvero punirne uno per educarne cento. In ogni caso, tutte le tesi ruotano intorno all’art. 27, comma 3 della Costituzione italiana, che recita testualmente: “(…) La pena non può consistere in trattamenti contrari all’umanità e deve assicurare il rispetto della dignità della persona”. Una tendenza positivista sempre più crescente tra gli “addetti ai lavori”, inoltre, ripone una grande fiducia nella possibilità di reinserimento, senza rischi sociali, del condannato a “fine pena mai” o, più eufemisticamente, a ”liberazione 9999”, nel consorzio umano e civile.

C’è chi crede molto nell’efficacia delle forme di pena extramurarie, convinto che le politiche severe siano meno efficaci di quelle premiali, facendo emergere l’esigenza di umanizzare la pena, evitando che l’ergastolo sia “morte viva”. Questo preambolo serve ad adiuvandum per aiutare il lettore a districarsi nei meandri linguistici e filologici del linguaggio giuridico, più comprensibile a Kafka che a La Palice, di gran moda in questi giorni in cui il Leit-motiv è l’ergastolo ostativo, cioè quel particolare regime carcerario a cui sono sottoposti coloro che, a causa della loro mancata collaborazione, ai sensi dell’art. 58 ter. dell’Ordinamento Penitenziario, ne impedisce la scarcerazione con il beneficio della condizionale, anche se la mancata collaborazione non significa automaticamente che il soggetto detenuto non abbia rescisso ogni legame con l’associazione mafiosa o terroristica. Infatti, secondo un ergastolano non collaborante, sottoposto al regime restrittivo dell’art. 4 bis dell’Ord. Penit.: “L’ergastolo è una pena di morte al rallentatore che ti ammazza lasciandoti vivo”.

Anche se in realtà l’ergastolo, la massima pena vigente in Italia, nata in sostituzione della pena di morte, abolita con la promulgazione della Costituzione, viene comminata solo nei casi di manifestazioni criminose più gravi “che evocano la rottura di un patto sociale primordiale”, molti sono coloro i quali non credono in una sua maggiore efficacia dissuasiva, rispetto ad una pena temporanea da 24 a 32 anni, sino alla liberazione condizionale. Insomma, varie sono le correnti di pensiero intorno alle “esigenze satisfattorie” di chi cerca di assecondare il pubblico sentimento incline alla vendetta. Così, partendo dall’ergastulum come prigione sotterranea o miniera per punire gli schiavi riottosi condannati alla damnatio ad metalla, ad salinas etc., dell’antica Roma, siamo giunti al carcere duro, detto 41 bis, per chi si è macchiato di reati di sangue, in contesto mafioso o terroristico. E negli altri casi no? Last but not least, c’è da aggiungere che l’ergastolo italiano, comunque detto, in quanto pena intramuraria afflittiva, ultimamente è stato biasimato dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU) che, ignorando le peculiarità storico-sociali italiane, tra le sue direttive, all’art. 3, ripete l’esigenza che: “(…) tutte le pene, compreso l’ergastolo, non comportino trattamenti inumani o degradanti per il soggetto condannato”. Ora il convitato di pietra, disorientato, osserva: “Sì, è giusto evitare gli effetti desocializzanti della pena a danno del condannato alla “clessidra senza sabbia”, ma nessuno, neppure in Europa, pensa alle vittime di crimini efferati come i femminicidi e gli infanticidi (esempio tragico, il caso del povero Giuseppe Di Matteo, bambino di 12 anni: sequestrato, torturato e, dopo due anni, strangolato e sciolto nell’acido), sempre più frequenti nella nostra “società turbata”? Che direbbe Cesare Beccaria, se fosse vivo?

Prof. Domenico Calderone

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1 Risposta
  1. Giuseppe Giannini

    Con questo articolo il professor Calderone ci offre una esemplare disamina su questioni che rimangono insolute.
    Temi delicati che implicano inevitabilmente un coinvolgimento emotivo.
    Compito degli operatori del diritto, al di là della sottoposizione alla legge, è quello di fare giustizia.
    Allora dovremmo preliminarmente chiederci cosa si intende per giustizia, e quali diritti intendiamo rafforzare e tutelare.
    E’ uno scontro tra visioni contrapposte, ma il diritto non può farsi giustizia da sé.
    Noto una certa ipocrisia da parte di finti garantisti, che scrivono e parlano di aspetti umani ma poi sono per “buttare via la chiave”, ma anche ad opera dei giustizialisti, che dimenticano le finalità delle pene.
    E poi ci sono i tanti cristiani che difronte alla violenza dimenticano il perdono.
    Insomma, questioni spinose, che tra l’altro sottovalutano l’ambiguità e il ruolo dei cd. collaboratori di giustizia.
    Si parla tanto di carcere duro ed ergastolo, accomunando l’ostativo ai reati commessi per diverse finalità, senza distinguere tra chi vuole attentare all’ordine generalmente riconosciuto e alla sicurezza, rispetto a chi vuole sia pur con la violenza, far emergere il dispostismo del potere legale.
    E il caso Alfredo Cospito di questi mesi,non fa notizia, non vende come Messina Denaro, ma dimostra tutta la barbarie di uno Stato pseudodemocratico, che ancora una volta dimostra quali interessi intende tutelare

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