La nostra adolescenza “rivissuta”… dopo oltre cinquant’anni. Di Armando Tita

In questi giorni “ferragostani” mi sono ritrovato tra  simpatici e benevoli  commenti, tra il serio e il faceto, frutto dei miei ultimi articoli, apparsi su La Nuova.

Molti amici e amiche si sono espressi su Fb  con centinaia di condivisioni di puro divertimento e di puro compiacimento.

Ma, caro direttore, consentimi, una “narcisata”,  il più bello viene da un  caro amico, un gentleman, un dirigente scolastico: “Ciao Armando, ti leggo sempre con vero piacere! Sei un uomo libero come pochi. Un caro saluto”. Lo ringrazio di cuore.

E’ stato il più bel commento di questi ultimi venti anni di “penna salace” vissuti tra giornali, riviste, mensili, blog e tanto altro. Un commento che mi ha davvero commosso. Un commento che mi sprona a continuare.

Spronato da queste stupende condivisioni la mia attenzione di questi giorni ferragostani va nella direzione di  vecchie amiche e di vecchi amici ritrovati dopo oltre cinquant’anni.

Un miracolo, un autentico miracolo ripercorrere, addirittura, gli anni della Scuola Media Statale di San Fele. Qualcosa come cinquantasei  anni fa.

Ritrovarsi con tanti amici e amiche “scomparse” nel nulla e ritrovate oggi  in questa estate ruvese è stato per me una vera full immersion, un vero nostalgico amarcord.

La ragazzina dell’epoca si chiamava Linda, insieme ad Olga ed Emilia di San Fele  e a tante ragazze di Ruvo (Anna, Rosetta, Maria, e tante altre, solo per citare le più conosciute) rappresentavano il gotha della bellezza ruvese e sanfelese dell’epoca.

Linda era molto “gettonata”. Rivederla è stato come rivivere i momenti di una adolescenza vissuta tra sogni, illusioni e tanta rabbia.

Il Governatore De Luca, originario di Ruvo del Monte, coltivava una forte passione per Linda.

Io sono convinto che, ancora,  oggi, il nostro illustre  concittadino ami il suo “Pisciolo” (quartiere ruvese dei nostri giochi infantili) ricordando con tanta tenerezza questi  suoi primi amori. (confermati dalla Linda e dai cugini ruvesi)

Una bella adolescenza, la nostra,  vissuta tra oratori e canti.

Com’era bella la canzoncina  della Madre Superiora abbinata al “peccato mortale”.

“Tra le rose e le viole anche il giglio ci sta bene, noi vogliamo tanto bene alla madre superiora, evviva la madre superiora, abbasso il peccato mortale”.

Che bella ingenuità.

Vivere in simbiosi con preti e suore (senza alcuna manifestazione di pedofilia) è stato per noi  una vera palestra di vita.

Vissuti in maggioranza senza il conforto dei nostri padri, quasi, tutti emigrati, (lo stesso dicasi del Governatore De Luca con il padre Pietro  emigrato in Venezuela con mio padre e il fratello Vincenzo, morto tragicamente sul lavoro).

La Chiesa, il Convento e l’oratorio  del vecchio parroco Don Antonio Patrissi erano la panacea dei nostri mali quotidiani e della nostra grama vita,  vissuta in famiglia e in paese.

Un’esistenza condita da una  società “patriarcale” che aveva fatto del “divieto” ai minori, il leit  motiv del “loro” vivere sociale.

Ai ragazzi e agli adolescenti della mia epoca era vietato entrare nei bar. Se qualcuno furbescamente si nascondeva per assistere alle competizioni del tressette e della scopa, immediatamente il barista lo prendeva per le orecchie e lo accompagnava a calci fuori dal  locale con un ulteriore ammonimento: “Non ti far vedere più qui, altrimenti avviso i tuoi genitori” Era un rincaro di dose non desiderato.

Il povero ragazzo dopo aver preso calci in culo e tirate d’orecchie pregava il barista di non farne menzione ai parenti.

Un’altra pagina di società patriarcale violenta l’ho scolpita  ella mia mente, una vera assurdità. Lo “ scandalo” consisteva nel praticare il  gioco del calcio.

Mentre questi poveri adolescenti con un pallone di finto cuoio, quasi quadrato, con la siringa (che serviva a gonfiare la camera d’aria) che fuoriusciva “penzoloni” giocavano al calcio nel selciato tra polvere e pietre arrivavano , quasi ,per incanto, i genitori dei giovani calciatori,  muniti di bastone e fruste   per dare una sonora lezione a base di calci, bastonate e frustate.

Non era tollerabile giocare  al pallone. Questa stupenda società patriarcale di merda del padre padrone non accettava questa terribile  “umiliazione” .

I figli dovevano “coadiuvare” alle imprese familiari, tra pastorizia, manovalanza e lavori agricoli, non potevano e non dovevano giocare al  calcio, era considerato da tutti questi trogloditi, lo ripeto e lo ribadisco, uno” scandalo “.

Qualcuno oggi potrebbe fare una sonora risata. In quel tempo era maledettamente così. I figli erano numeri, erano di assoluta proprietà del “sultano/padre”.

Il sultano /padre padrone aveva l’imprimatur anche del sesso e della violenza.

Quando il sultano decideva di violentare la moglie (e qualche volta le figlie), tutti i bambini venivano cacciati dai “tuguri” in mezzo alla strada,  fino a quando il sultano ronfando a dismisura lasciava uscire la povera moglie per riprendere e riaccudire la “figliolanza”.

Questa pagina di violenze domestiche era quotidiana.

La nostra infanzia vissuta da giochi inventati e di squadra non aveva mai intuito questo terrificante grado di violenza di questa rozza società.

Tanti erano i casi di  autentici orchi, tante erano le fughe di figlie adolescenti e pre-adolescenti che preferivano “scappare” alla loro esistenza violenta e ingiusta.

Lo abbiamo scoperto tanti anni dopo, tanti i casi, mai denunciati.

Noi, al contrario, eravamo l’élite, per modo di dire.

Eravamo  i  figli di emigranti  americani e di piccoli commercianti.

Le nostre famiglie “ borghesi” ci hanno consentito di subire solo di striscio questa prevaricazione patriarcale.

Le uniche rinunce che abbiamo subito da studenti adolescenti erano i mesi “invernali” di San Fele.

Non potevamo entrare in locali pubblici perché minorenni.

Ci venne in soccorso il caro parroco Don Lelio.

Un prete di infinita bontà e con infinite ricchezze immobiliari che viveva la sua esistenza in perfetta solitudine tra  preghiere e bizzarrie varie.

Beveva il caffè non nella tazzina , ma, nel piattino, la scena meravigliosa che si presentava  quando versava il caffè nel piattino era una  pagina di vera  “ commedia dell’arte”.

Ci ospitava a casa sua fino all’arrivo dello sgangherato pulmino della Liscio.

La presenza di questi amici e amiche ritrovati dopo oltre cinquant’anni  mi hanno invogliato a ricordare questa nostra povera e grama  infanzia/adolescenza, ricca di umanità, solidarietà e di  comunione fraterna che rivivrei con la stessa intensità e con lo stesso calore umano possibilmente senza volenze di alcun genere.

Per la nostra adolescenza sarebbe bastata una “ gita”  a Capo di Giano (solo il nome rievoca la mitologia greca e la ricchezza archeologica del sito), frazione di Muro lucano, per  toccare il cielo con un dito.

Che gioia, che entusiasmo, che soddisfazione .

Chiudo perché mi sto davvero commuovendo.

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